Quando la pace non costituisce un traguardo: la strage di Sumy di Nicola Prebenna

Sguardo al futuro
   La pace, sogno e speranza di tanti, non solo dei cristiani. Spesso la pace si rivela slogan reiterato senza che si considerino i fatti che quotidianamente affiorano dalla cronaca internazionale.
   La pace non può ridursi a pretesto, o la si vuole e si fanno proposte ragionevoli per realizzarla, o è solo un alibi dialettico. Gli attacchi sistematici e ripetuti delle forze russe sui civili in Ucraina, dal mio modesto punto di vista, rivelano che per Putin la pace appartiene ad un altro pianeta.
    Trump, ora determinato, ora ondivago, ora curatore fondamentale degli interessi americani, pare intenzionato seriamente a perseguire la pace. Non altrettanto può dirsi della controparte, della Russia. Per Putin la pace non esiste, a meno che non la si intenda come resa e cedimento a tutte le sue pretese.
   Per realizzare questo obiettivo, non bada a nulla. Ricorre a tutti i mezzi che ritiene utili allo scopo. La guerra, si sa, è un fenomeno terribile, per quanti sforzi si facciano non sempre è possibile non incorrere in errori, ma programmare e realizzare attacchi sistematici a strutture civili ha a che fare con i crimini di guerra.  E di questi la Russia ne ha commessi tanti e documentati. Non so se la minaccia trumpiana di sanzioni forti nei confronti della Russia possa indurre Putin a moderare le sue ambizioni e a fare qualche passo concreto verso prospettive di pace. Sono molto pessimista, e poco disposto a condividere l’aspirazione alla pace di molti pacifisti che sognano l’isola che non c’è.
   Un bagno di realismo non farebbe male. Penso a tutti coloro che da sempre hanno predicato la soluzione del conflitto affidata alla diplomazia, immaginata come il deus ex-machina da cui deriverebbe automaticamente la soluzione. Si dimentica o non si vuole tenere in conto che la diplomazia presuppone interlocutori interessati a ragionare e, se necessario, disposti a negoziare, a trovare punti d’accordo diversi dalle rispettive premesse. Soprattutto richiede che ci siano gli interlocutori.
   Se un interlocutore si ritrova solo, se la controparte latita, come è possibile prevedere dei rapporti diplomatici da cui partire? La definizione spesso ricordata di diplomazia è che è la distanza più lunga tra due punti, ma i punti da mettere in relazione devono essere due o più. Se non sono almeno due i contendenti, non può esistere diplomazia. Ricordo uno degli interventi di Fortebraccio che, quando imperversavano i rapimenti per estorsione, scrisse che i rapimenti avevano portato alla scoperta di quel che si celava dietro la foglia di fico di molte storture proprie dell’Italia degli anni settanta. A me pare che qualcosa di analogo si possa riferire al presente. Tanti pacifisti, tanti contestatori del necessario ricorso alla difesa, non mi pare che siano animati dall’autentico desiderio di pace vera; sono abbacinati dall’ideologia fine a se stessa. Ma è chiaro a tutti che la guerra di aggressione all’Ucraina non è l’unica minaccia.
   Altri scenari propongono fatti terribili. L’assalto terroristico di Hamas del 7 ottobre, la reazione spropositata dell’esercito israeliano, stanno disegnando un altro teatro in cui la pace è lontana, e non si riesce a trovare uno spiraglio. Hamas non cede alla richiesta di liberare gli ostaggi israeliani, e il governo israeliano è deciso a smantellare l’organizzazione che sente e vede come minaccia permanente alla propria sicurezza. Ed anche in questa realtà medio-orientale la pace pare che non sia all’orizzonte. Eppure tanti sono donne e uomini degli opposti schieramenti che sono autentici facitori di pace. E’ a questi che occorrerebbe fare riferimento, per individuare qualche spiraglio che, come la colomba dell’arca di Noè, possa riportare il segno che nuovi tempi, positivi, possano accompagnare il percorso dell’umanità: ed è l’auspicio che, nel tempo pasquale, formuliamo agli uomini di buona volontà.