Cristiana Buccarelli è una scrittrice di Vibo Valentia e vive a Napoli. È dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli.
Conduce annualmente laboratori e stage di scrittura narrativa. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019, presentati tutti in edizioni diverse al Festival di Letteratura italiana Leggere&Scrivere. Con il libro Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020.
Nel 2020 è stata pubblicata a sua cura la raccolta Sguardo parola e mito (IOD Edizioni). Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni).
Ha partecipato all’ultima edizione del Concorso di Poesia e Racconti Carlo Gesualdo il “Principe dei Musici” entrando nella rosa dei finalisti e ottenendo la Menzione d’Onore. Impossibilitata a essere presente alla manifestazione che si è tenuta presso Palazzo Pisapia a Gesualdo, ha ritirato la menzione oggi. Ha colto l’occasione per fare un giro del paese, nel suo centro storico, poi al Castello dove Carlo Gesualdo visse e compose i suoi madrigali famosi e studiati ovunque nel mondo. Così scrive del paese che la ha ospitato: “Dormo nel vicoletto di Gesualdo, un paese antico di pietra, ascolto i brevi rumori della notte e dell’inizio del giorno; qualcuno che cammina nel vicolo, qualcuno che fa una risata, qualche bimbo che si dà appuntamento per giocare. In questo paese delicato e forte, che ha resistito al sisma ed è rinato, con il suo Castello rinascimentale, le piazze, le scalinate e le fontane, mi trovo immersa in una pietra atavica, che mi avvolge in un tempo sospeso e stratificato”.
Affascinata da tanta bellezza ha assicurato che vi farà ritorno presto.
Di seguito il testo completo del racconto inviato per partecipare al Concorso :
Vita di uno scultore gesualdino
Nell’estate del Duemila, quando ero ancora molto giovane e stavo per laurearmi, ho conosciuto Alessandro, il giovane scultore di Gesualdo. Il paese mi è rimasto impresso, con il suo Castello, antica corte rinascimentale di Carlo Gesualdo, e il suo sperone di roccia, da cui si sovrastano le valli dell’Ufita, dell’Ofanto e la valle sacra d’Ansanto, con il suo lago sulfureo e l’antichissimo culto di Mefite.
Con vari amici, tutti ospiti di Giovanni, artista originario del paese, facevamo lunghe passeggiate a piedi e in bicicletta. Nel cuore pulsante dell’Irpinia, la terra di mezzo fra i due mari, sprofondavamo in un tempo millenario. Era l’estate dell’incanto. Una notte Alessandro, il cugino di Giovanni, venne a bussarci a casa. Era un ragazzo bruno di poco più di vent’anni, portava i capelli lunghi e arruffati, aveva la barba lunga e nello sguardo, franco e ardito, c’era un acume assetato di dolcezza.
<< Venite a visitare la parte antica e terremotata del paese?>>, ci propose.
L’idea mi sembrò insolita e seducente e così accettai subito. Anche Giovanni accettò.
<<Avanti vieni, Cristiana>>
<<Non ho le scarpe adatte>>.
Quella sera, non solo avevo scarpe con le zeppe alte, ma anche una gonna lunga.
<<Forza dacci le mani>>.
Alessandro e Giovanni mi tesero le mani e mi aiutarono a scavalcare un recinto di legno. Camminammo lentamente lungo una strada di pietra in discesa, c’era un buio leggero, senza nebbia, che non portava notte, portava luna. Ci infilammo nei vicoli deserti di pietra liscia con tante piccole case ammucchiate, una di fronte all’altra.
<<Siete sicuri che non c’è nessuno?>> domandai.
<<Qui non c’è nessuno da trent’anni>> mi risposero, con un tono quasi allegro. Sentivo una specie di felicità invadermi in quel luogo fantasma, che mi dava un senso nuovo di libertà. Guardavo le finestre di certe casette con i legni inchiodati sulla facciata, che sembravano bocche cucite, altre invece erano case completamente aperte, sventrate, ed era rimasto solo un ammasso di pietre. Camminavamo silenziosi in discesa, poi ad un tratto la luna si velò e il buio diventò più intenso. <<Hai paura?>> mi chiese Alessandro ed io feci un cenno di diniego.
<<Siete mai entrati nelle stanze delle case che non sono crollate?>>
<<Sì, ma è pericoloso>>, rispose Giovanni.
Arrivammo alla fine del perimetro del paese e risalimmo. Da quella dimensione sommersa nel passato, rientrammo nel nostro tempo, nella piazzetta del Castello, tra gli abitanti vivi di un paese vivo.
Sono passati ventidue anni da quella sera e non sono più tornata a Gesualdo; mi ha trattenuta una pigrizia, un’abitudine alla lontananza. Non ho più rivisto Alessandro, ma mi è sempre rimasto impresso dopo quella notte.
Un giorno di questa primavera Giovanni mi fa:<<Ti ricordi di Alessandro? Si è preso la libertà di scegliere la sua fine, così come aveva fatto sua madre quarant’anni fa>>.
Resto attonita, sbalordita.
Chiedo a Giovanni se in questi anni, quando era al paese d’estate, sia stato spesso con lui. << Ogni volta che ero lì>> inizia a dirmi<<lo accompagnavo a piedi o in bicicletta nei suoi pellegrinaggi nella natura circostante. Lo attraeva come un magnete lo scenario dell’Irpinia e, attraverso le sue pietre, trovava testimonianze del passato. Archeologo della pietra, come un rabdomante che cerca l’acqua con una bacchetta di frassino, cercava le pietre con il suo sguardo acuto e visionario. Molte delle sculture che ha lasciato, come quelle preziose in onice di Gesualdo, pietra dalle infinite sfumature, nascono dall’idea di un’immagine che la pietra stessa manifesta, una volta trovata per terra, in un campo, in un bosco o in una cava. Appena presa da terra subito ci sputava sopra per togliere la polvere e osservarne la lucentezza, e subito ci trovava un leone, un cane, una nuvola, una conchiglia, una tartaruga, un delfino e così via, qualcosa di vivo e urgente che appariva già nella sagoma, e che lui faceva venir fuori del tutto con il taglio del suo scalpello >>.
<< Poi, improvvisamente, fece la scoperta di una pietra molto simile a quella detta ‘di Firenze o d’Arno’, la quale, tagliandola, evoca dei paesaggi stilizzati con palazzi, chiese e campanili. Pieno di entusiasmo mi disse: ‘’la chiameremo pietra d’Ansanto, è una pietra in cui ognuno vede qualcosa per un gioco di fantasia, come quello che si faceva da piccoli con le nuvole, per non smettere di essere mai bambini’’>>.
Alessandro, intuisco, era fortemente connesso alla terra e alla natura; soggiogato dal quel senso di mistero che ogni cosa contiene, da un potente sentimento del passato e del tempo.
<<Una volta mi disse ‘’un giorno sapremo che siamo parte di ogni elemento di questa terra, vivo o morto che sia, che noi siamo questo luogo, piantati come alberi, addormentati come pietre’’>> continua Giovanni, <<nella sua ricerca di scultore poetico e contemporaneo ha plasmato nella pietra nuove figure dedicate allo Xoanon dell’antichissima dea Mefite nella valle sacra d’Ansanto… >>.
Fa un sospiro e la sua voce diventa rivelazione e sussurro: <<Lei gli era apparsa in sogno. Lo aspettava da moltissimo tempo nel suo lago sulfureo, tra le acque ribollenti e le esalazioni di anidride carbonica; gli era apparsa nel suo santuario del VII sec. A. C., vicino al pozzo votivo. Lui aveva calpestato quel paesaggio arido, arso, lunare e mistico, con alle spalle un bosco fitto di querce e rosa canina. La dea Mefite, colei che sta nel mezzo tra terra e cielo, tra vita e morte, l’aveva sfiorato con le piccole mani trasparenti di luce e gli aveva chiesto di immergersi nel lago di gas in cui la roccia si era frantumata e di risalire sull’altro versante>>.
Se chiudo gli occhi adesso lo vedo, Alessandro; in bilico sulle soglie, tra il sotto e il sopra, tra il visibile e l’invisibile, mentre si tuffa nel mistero infinito e continuo della rigenerazione nella sua valle d’Ansanto.