AIDR. Smart Working: arriva il protocollo nazionale per il settore privato

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AIDR. Smart Working: arriva il protocollo nazionale per il settore privato

La pandemia ha reso finalmente lo smart working una realtà diffusa anche nel nostro paese, determinando però una situazione nuova che va regolamentata. Se infatti può essere molto vantaggioso usare casa propria come ufficio – eliminando i pendolarismi, potendo risiedere in luoghi più economici delle grandi metropoli o conciliando meglio lavoro e vita privata – è anche vero che il lavoratore ha ora bisogno di tutele diverse per evitare che si annullino i confini tra lavoro e vita privata. Dal canto suo anche il datore di lavoro, ha bisogno di poter guidare e controllare l’operato del prestatore d’opera, di mantenere i team uniti o di garantire il rispetto di direttive e obiettivi.

Insomma si delinea uno scenario nuovo che va normato e regolato sotto tutti i profili, solo così lo smart working sarà una modalità di lavoro vantaggiosa per tutti. Ne parla nello scritto che segue il giuslavorista Sergio Alberto Codella, Segretario generale dell’AIDR.

“Il 7 dicembre 2021 il Governo e le Parti sociali hanno sottoscritto il  Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile. – scrive Codella – Non è stata  certamente una sorpresa: già da qualche tempo si vociferava della  volontà di firmare un accordo “sindacale” sullo smart working  relativamente al settore privato.

Sul tema sono intervenuti numerosi esperti che, per la stragrande  maggioranza, hanno formulato un giudizio positivo o più che positivo  sul Protocollo. Al riguardo mi considero, però, una voce fuori dal coro.

Innanzitutto affronterei una questione di “base” relativa agli attuali  equilibri sindacali. In molti commenti si è sottolineato il concetto  che il Protocollo confermerebbe una nuova fase di concertazione tra il  Governo, le rappresentanze dei datori di lavoro e, appunto, i  sindacati, in particolare, CGIL, CSL e UIL. Peccato, però, che questa  valutazione sembri essere sconfessata da quanto accaduto in occasione  dello sciopero generale del 16 dicembre 2021, proclamato da CGIL e  UIL, ma non dalla CISL.
A prescindere dalle ragioni che hanno determinato tale divaricazione,  la questione è assai significativa in quanto, dopo molti anni in cui  la Triplice è sempre stata compatta nell’indire manifestazioni e  astensioni dal lavoro, oggi ci troviamo di fronte ad una oggettiva  spaccatura sindacale tra CGIL e UIL, da un lato, e CISL, dall’altro.
Ciò per dire che, alla luce della importante scelta di indire uno  sciopero generale non unitario, appare fuori luogo sbandierare uno  stato positivo dei rapporti tra le parti sociali per la sottoscrizione  “congiunta” di un Protocollo che (per i motivi di cui si dirà) ha una  rilevanza secondaria.

Passando ad analizzare il Protocollo, esaminerei subito una questione  “formale” che peraltro sembra riverberarsi nella sostanza del testo.
Definire il documento come “protocollo”, appare una scelta superata  già sotto il profilo testuale. Un’intesa che avrebbe l’ambizione di  traghettare il mercato del lavoro verso il futuro sembra infatti in  contraddizione con l’anacronistica denominazione di “protocollo”, di  indubbio sapore ottocentesco. Nell’ottica di riformare il diritto e il  mercato del lavoro, sarebbe stato più opportuno avere più coraggio e  intraprendenza e definirlo “accordo programmatico” o, addirittura,  “linee strategiche di sviluppo”.

Nel merito poi il documento, a mio avviso, potrebbe essere considerato  in gran parte superfluo e, per il resto, non del tutto condivisibile.

Superfluo, in quanto molti dei concetti e dei principi rappresentati  non sono altro che una ripetizione, o meglio una parafrasi, di quanto  già previsto nella Legge n. 81/2017 (che disciplina, appunto, il  lavoro agile), una legge che è e resta ottima. 
Si prenda, ad esempio,  l’accordo individuale, che costituisce il punto cardine della  disciplina prevista dalla Legge n. 81/2017. Il Protocollo non fa che  ripetere quanto sostanzialmente previsto dalla normativa in tema di  requisiti necessari per l’accordo, solo con un livello di  specificazione maggiore, i cui standard comunque erano stati, a mio  parere, già raggiunti con la contrattazione a livello individuale.

Anche per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, la  definizione di luoghi e orari della prestazione, la tutela in caso di  infortunio, il principio di parità di trattamento  non si riesce a  vedere nulla di veramente innovativo, se non una maggior declinazione  di quanto già previsto dalla legge.

Peraltro il Protocollo non ha colto l’opportunità di “risolvere”  alcuni nodi che la prassi applicativa ha posto, come, ad esempio,  quello sull’assegnazione dei buoni pasto agli smart worker (su cui il  documento nulla riferisce) o, ancora, in tema di disconnessione (su  cui il Protocollo continua ad essere piuttosto generico).

Il Protocollo pone, invece, l’attenzione sugli “incentivi” destinati  (forse) alle aziende che, a determinate condizioni, favoriscono  l’utilizzo del lavoro agile. Considerato che lo smart working è  un’opportunità sia per i lavoratori, sia per le società, non mi sembra  giustificata tale “incentivazione” che, invece, sarebbe stata più  appropriata per l’introduzione o lo sviluppo, ad esempio, della  digitalizzazione aziendale.

Quanto, invece, al giudizio di “non condivisibilità” di alcune parti  del Protocollo, mi riferisco soprattutto a due aspetti.

Il primo, di minore importanza, è relativo agli strumenti di lavoro.  Il documento chiarisce infatti che, normalmente, tali strumenti sono  forniti dal datore di lavoro, fatto salvo diverso accordo tra le  parti. Tale opzione non mi sembra opportuna in quanto, almeno gli  strumenti hardware devono essere assegnati sempre dal datore di lavoro  al lavoratore, per più ordini di motivi. Innanzitutto, il dipendente  non deve mettere a disposizione propri strumenti per poter espletare  la propria prestazione (si pensi paradossalmente al caso in cui  venisse chiesto ad un impiegato di portarsi le proprie penne in  ufficio…), inoltre è nello stesso interesse datoriale conferire al  lavoratore strumenti aziendali e ciò per assicurare che gli stessi  rispettino standard informatici di sicurezza adeguati all’attività  richiesta. Se su un computer di proprietà di uno smart worker vi fosse  una intrusione “informatica”, con perdita o furto di dati sensibili  aziendali determinata dai bassi livelli di sicurezza di detto  strumento informatico, non potrebbe essere di certo imputata alcuna  responsabilità al lavoratore, con grave danno per l’azienda.

Il secondo e più importante aspetto riguarda il ruolo della  contrattazione collettiva nel mondo dello smart working. La Legge n.  81/2017 non aveva attribuito alcun “compito” alla contrattazione  collettiva. Tale scelta legislativa mi sembra essere più che coerente  con l’istituto del lavoro agile considerato che, come ripetutamente  affermato nella stessa relazione illustrativa alla legge, lo smart  working offre vantaggi sia per il datore, sia per il dipendente. Una  volta, quindi, che la normativa ha posto i limiti e definito le  garanzie per i lavoratori, non si comprende quale possa essere la  necessità di intese sindacali sul punto che, invece, sono più che  caldeggiate dal Protocollo.
Leggendo le premesse al documento, sembra che l’opportunità di tali  intese “collettive” sia rinvenibile nella necessità di garantire il  “corretto utilizzo (delle nuove) … tecnologie” e di offrire “idonee  garanzie” sulla “sicurezza dei dati aziendali e della tutela dei dati  personali dei lavoratori”.
Non si comprende come un’intesa collettiva possa offrire maggiori  rassicurazioni sul raggiungimento di tali obiettivi, considerando che  la Legge n. 81/2017 già definisce un ventaglio di tutele adeguato e  che, in una sede come quella di un’intesa collettiva, appare  francamente difficile affrontare temi quali l’utilizzo di nuovi  strumenti informatici oppure la gestione dei dati personali del datore  o del dipendente.

Ad ogni modo, ci si augura che tale Protocollo possa perlomeno  incentivare l’utilizzo dello smart working a livello di cultura di  impresa e, cioè, sia utile a rendere palese che ormai anche le parti  sociali hanno preso piena consapevolezza del fatto che il lavoro  “agile” sia una forma di attività “fisiologicamente” e utilmente  inserita all’interno del processo di sviluppo dell’organizzazione  dell’impresa in senso sempre più moderno”.