“Personal branding” è un concetto che è diventato più o meno familiare a tutti, grazie ai social, infatti, ciascuno di noi, raccontando di sé, può mostrare anche le proprie abilità professionali e acquisire o incrementare la propria clientela.
Ne scrive Claudio Nassisi, Dottore Commercialista e Phd in economia, socio Aidr nel testo che segue.
“Partiamo da una semplice considerazione, la condivisione di una informazione sul web, in alcune circostanze, è capace di generare lo stesso effetto di un sasso lanciato nello stagno. In pratica è dotata di una propria risonanza e riesce a propagarsi in maniera più o meno ampia. – scrive Nassisi – Questo significa che, in maniera cosciente o inconsapevole, tutti coloro i quali accedono alla rete creando contenuti (passando anche per le singole opinioni espresse in modalità talvolta estemporanea) lasciano un segno. Il numero di queste “tracce” definisce nell’insieme una immagine di noi stessi e la proietta verso gli altri utenti.
Si potrebbe quindi pensare che ognuno sia un piccolo editore individuale di contenuti, spesso personali, che definisce il proprio marchio e lo promuove anche.
Ecco quindi la necessità di parlare del personal branding.
Prima di affrontare ulteriori riflessioni sull’argomento è opportuno riportare le parole dell’imprenditore Tom Peters, ovvero di colui il quale, per primo, ha esplicitato questo concetto nel 1997: “Noi siamo gli amministratori delegati delle nostre stesse aziende: la IO S.p.A.”.
Di conseguenza ciò che ognuno di noi prova a fare nell’ambito lavorativo è la promozione del proprio marchio distintivo, della propria immagine verso coloro i quali, si auspica, vi possa essere un interesse.
Il concetto stesso di marchio, che tradizionalmente appare legato alle realtà industriali, nel presente, diventa piuttosto un elemento collegato all’individuo che dovrà decidere per quale motivo voler essere conosciuto e quale immagine dare di se stesso.
Questo tipo di riflessione deriva, neanche a dirlo, dallo scambio di informazioni personali che coscientemente oppure no circolano sulla vita di ciascuno di noi nella rete.
I dati relativi al 2021 indicano che ciascun utente trascorre circa sette ore al giorno sul web e due ore e mezza utilizzando i social media (fonte Gobal Digital Report 2021).
Questo vuole dire che si passa molto tempo ad aggiornare i contenuti dei propri profili social (dal carattere privato piuttosto che pubblico) ma che, dall’altro lato, si passa anche molto tempo a consultare i profili degli altri utenti.
Se all’inizio i social media erano un semplice strumento per connettere persone che avevano gli stessi interessi, con il tempo hanno intrapreso anche un percorso prettamente commerciale diventando un mezzo per generare profitti, un nuovo canale di comunicazione per raggiungere i clienti con una capacità di penetrazione maggiore rispetto alle modalità sino a prima utilizzate (cartellonistica stradale, pubblicità sui quotidiani oppure televisiva per fare qualche esempio).
Nel 1997 è stato attivato quello che può essere considerato il primo social network. Si chiamava Six degrees (basato sulla nota teoria sociologica per la quale si ritiene che nel mondo sia possibile conoscere qualsiasi persona passando per un numero di intermediari non superiore a 5).
Questa realtà, come accade purtroppo per tutte le idee che anticipano le tendenze future, è però cessata nel 2001 anche perché il web e i dispositivi mobili non erano così diffusi tra la popolazione e i costi per l’accesso erano ancora alti.
Se Six degrees consentiva di mettere in contatto gruppi per lo più omogenei di persone, ad oggi è possibile saltare molti dei sopracitati intermediari per arrivare a contattare anche soggetti con una storia diversa dalla nostra.
Dal 1997 è cambiata innanzitutto la facilità di creare contenuti e si è consolidata l’idea di una identità digitale che viene arricchita coscientemente oppure a propria insaputa e che, però, è accessibile da tutti coloro i quali digitino i nostri riferimenti sui motori di ricerca.
Ognuno di noi può effettuare anzi una verifica sulla propria situazione. Si provi ad utilizzare, a titolo di esempio, servizi quali Social Mention, Google Alert oppure Naymz.
Il personal branding è dunque una materia trasversale che interessa più settori: sociologico, psicologico, economico e ovviamente tecnologico.
Prima di tutto dobbiamo essere coscienti e attenti alla nostra presenza on line e dobbiamo capire che ogni documento che viene condiviso dovrebbe avere un proprio scopo perché sarà difficilmente cancellabile.
Si dovrebbe avere chiara quale idea vogliamo dare di noi stessi su uno scenario così eterogeneo come è il web.
Oltre a questi che possono sembrare potenziali pericoli, la nostra immagine può invece essere facilmente valorizzata sulla base dei canali con i quali decidiamo di interagire. In altre parole, dobbiamo considerare bene quale dei tanti social network vogliamo utilizzare per pubblicare il nostro materiale.
Le persone cercano di valorizzare la propria immagine nel web 2.0 per mettere in luce le proprie qualità che possono essere maggiormente recepite dal pubblico ritenuto di interesse. Allo stesso tempo cercano di differenziarsi dagli altri individui sul mercato.
La propria scelta potrà allora ricadere su forme più meno narrative. A titolo di esempio, si potrà passare dai contenuti estremamente sintetici di Twitter ai video di Youtube oppure da canali settoriali come Linkedin/Monster a quelli più generalisti come Instagram. Su Facebook normalmente si comunica con gli amici in maniera informale mediante foto o testo nella forma di articoli. Non è escluso ovviamente che vi saranno nuove forme sempre più integrate per veicolare i contenuti sul web(si consideri il caso di Tik Tok).
Si dovrà anche cercare di mantenere una certa frequenza nei propri aggiornamenti (anche da questo punto di vista i social sono differenti e sembrerebbe necessario un maggior numero di interventi su Twitter per essere più efficaci rispetto agli altri canali). In ogni caso si dovrà essere disponibili a rispondere a qualsiasi domanda verrà avanzata dagli altri utenti oppure a gestire ogni tipo di feedback ricevuto dai lettori.
Per essere quindi maggiormente efficaci potrebbe essere utile realizzare un’analisi strategica basata sulla comprensione dei propri punti di forza, delle debolezze, delle opportunità e infine delle minacce (cd. analisi SWOT impiegata per la realizzazione di progetti più o meno complessi).
Potrebbe allora essere utile creare diversi profili per gli utilizzi che si intende fare delle informazioni e dare una visibilità limitata ai contenuti personali per favorire, al contrario, la diffusione di quelli di natura più tecnica (e dunque appetibili da un pubblico più ampio).
Il personal branding può essere in grado di soddisfare allora diverse necessità. Alcune di carattere personale (avere in primis una reputazione positiva) altre di carattere professionale (si pensi ai giornalisti, a coloro i quali hanno un incarico istituzionale o pubblico, alle celebrità dello spettacolo oppure dello sport).
Proprio coloro i quali hanno maggiore visibilità per lavoro hanno cercato di valorizzare la propria immagine riuscendo anche a promuoversi oltre l’iniziale campo di attività (sportivi che hanno creato la propria linea di abbigliamento oppure attori/attrici che promuovono cosmetici o prodotti per la salute).
In un modo oppure nell’altro il personal branding genera valore ed è un elemento strategico poiché il mondo del lavoro è incerto, basato su frequenti cambiamenti e focalizzato su progetti ben definiti.
In conclusione si intravedono diversi interrogativi: quali saranno gli effetti della sempre maggiore diffusione dell’uso dei social media sui singoli utenti? Quale, o quali, saranno i social media attraverso i quali poter valorizzare la promozione di sé stessi e delle proprie attività? Quale sarà il valore che verrà attribuito dalle imprese alle predette tracce lasciate sul web da parte dei singoli utenti (nella veste di candidati per le posizioni di lavoro che verranno proposte)?”.