Lettera aperta di un poliziotto penitenziario dal carcere di Benevento

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Foto dal web

Benevento – “A volte bisognerebbe far scemare le emozioni ‘a caldo’ ed in passato l’ho fatto, ma stavolta proprio non ci riesco – inizia così una lettera pervenuta oggi in redazione da parte di un poliziotto penitenziario, che preferisce rimanere anonimo.

“Sono quasi venticinque anni che faccio questo lavoro, ma quello a cui sto assistendo negli ultimi tempi mi mette i brividi. Si, i brividi.

Il Covid è stata solo la scusa, da parte dei detenuti, per riaffermare il proprio potere nei confronti di uno stato che appare completamente impotente e disinteressato a quello che capita all’interno di un carcere.

E quello che sta succedendo a Benevento m’indigna profondamente. Detenuti che si sentono legittimati a chiedere l’allontanamento di un direttore e di un comandante é inaccettabile.

Tutti hanno visto le immagini di carceri devastati, in balia della violenza più cieca e becera da parte di individui che bisogna rieducare, perché il fine, il compito principale a cui la polizia penitenziaria è chiamata a rispondere è questo: la rieducazione.

Una parola grossa e di difficile attuazione perché fatta anche di regole che bisogna rispettare, ma a tanti detenuti non piacciono né le regole e né chi cerca di farle eseguire. E questo è ciò che sta capitando nel carcere sannita.

E le rivolte dello scorso anno capitate in diversi istituti,  i numeri sempre più alti di aggressioni verso il personale ne sono la dimostrazione.

Raramente capita di vedere foto di poliziotti aggrediti, non perché ciò non accada, ma semplicemente perché non fa troppo notizia o perché abbiamo timore di pubblicare perché il nostro ‘caro’ ministero si é preoccupato di diramare una circolare in cui ci vieta di pubblicare immagini.

Così come colleghi che hanno, ingenuamente, commentato un post sono stati oggetto di rapporto disciplinare.

In questo i vertici nazionali sono molto solerti, cosa che non si può dire quando sono i detenuti a commettere reato. Basti pensare a coloro i quali si sono resi responsabili delle rivolte con contestuali aggressioni,  devastazioni, evasioni…nei migliori dei casi, sono stati allontanati in ambito regionale o zone limitrofe. Il tutto perché l’ ordinamento cerca di salvaguardare i rapporti familiari.

Peccato che i poliziotti impieghino anni prima di tornare a casa, soprattutto se si tratta di tornare in una città del Sud.

Il simbolo della giustizia é la bilancia, ma questa pende solo a favore dei carcerati. Ops… non bisogna chiamarli carcerati, ma utenti.

Così come non si deve dire cella, ma camera di pernottamento… non so se questo sia il risultato del politicamente corretto, ma so che a parole sono bravi in tanti, ma vorrei vedere questi buonisti riportare alla calma un detenuto psichiatrico o un tossicodipendente in piena crisi di astinenza.

E mi chiedo pure dove stiano queste persone quando anziché essere chiamati poliziotti penitenziari perché tali siamo, continuiamo ad essere dispregiativamente additati come secondini e guardie. In tanti anni ho visto diversi detenuti: dal ragazzino arrestato per droga alla vigilia dell’ esame di maturità al camorrista pluriomicida.

Ne ho visti e ne ho sentite tante di storie, ma il mio lavoro non mi permette di esprimere giudizi e soprattutto di far trapelare la pena o l’essere sconvolto che spesso hanno animato ed animano il mio cuore quando, magari, davanti mi trovo una donna che ha ucciso il proprio compagno dopo anni di violenze o una madre che ha venduto la propria bambina in cambio di pochi spicci.

Non sono né giudice e né stato, ma sono un poliziotto che, come tanti miei colleghi, soprattutto, in questo periodo di pandemia, é stato mille facce di una stessa medaglia:  educatore, infermiere (ebbene si, abbiamo salvato decine e decine di detenuti che hanno cercato di suicidarsi, ma anche questo non fa molta notizia) psicologo, punto di ascolto e di lamentele, per TUTTI, indistintamente. Si, perché, i  detenuti non fanno altro che lamentarsi: dell’educatore che non si vede, dell’avvocato che non li difendono come vorrebbero, del magistrato,  dei volontari che non ci sono, della caritas che regala poche cose, del cibo e pazienza se quello che mangiano loro é molto meglio di quello che mangio io in mensa.

Col covid hanno avuto subito a disposizione i i telefonini per avere contatti  tramite whatsapp con i propri familiari e pazienza se io ho dovuto aspettare mesi per rivedere le facce dei miei cari perché la mia mamma ultraottantenne non lo sa usare lo smartphone. Prima hanno fatto rivolte e proteste perché volevano i colloqui ed ora che li hanno riavuti perché l’Italia è in zona bianca, vogliono continuare a fare i whatsapp.

In effetti la coerenza non è il loro forte. Ed ora, dopo i fatti di S. Maria, che condanno fermamente e fortemente, mi ritrovo pure a pensare che sia successo perché lo stato non é intervenuto in maniera chiara e decisa.

Gli istituti penitenziari si sono ritrovati pressoché da soli a gestire una pandemia, senza ricevere direttive uniformi e neanche i minimi dispositivi di sicurezza. Già in condizioni normali c’è molta differenza tra un istituto ed un altro, ma col covid e con le rivolte c’è stato quasi un abbandono totale da parte di chi sarebbe dovuto intervenire.

E, in questa situazione inimmaginabile,  i poliziotti hanno arrancato cercando di fare del proprio meglio, sostituendosi a tante figure che in questi mesi si sono dati letteralmente alla fuga: dagli educatori ai volontari ecc… e per questo mi ritrovo pure a pensare che non sia giusto che  foto e nominativi dei miei colleghi abbiano fatto il giro su tutti i mass media,  che sono stati additati peggio dei peggiori criminali e che siamo stati buttati nello stesso calderone, dove siamo stati invitati a recarci a lavoro in abiti civili per paura di essere oggetto di aggressioni, come se non bastassero quelle di cui siamo già oggetto all’interno di un carcere.

E non parlo solo di aggressioni fisiche, ma anche verbali. L’arma che possiamo usare è la penna per scrivere le relazioni di servizio, ma il detenuto, nelle migliori delle ipotesi ci fa una risata in faccia: “assistè, m’aggia fa vient’anni, sai quand me ne fott d nu rapporto vuost?”. Dopo i fatti di S. Maria stiamo assistendo ad un’escalation di violenze ed aggressioni.

Qualsiasi motivo é buono per provocare e protestare.  Oggi nel carcere di Benevento i detenuti hanno chiesto l’allontanamento di direttore e comandante. Siamo al paradosso più completo e mi viene da pensare ad un famoso proverbio:  È gghiuto ‘o ccaso ‘a sotto i ‘e maccarune ‘a coppa” . Fino a qualche anno fa il detenuto che si rendeva colpevole di aggressione o di fomentare proteste e disordini in poco tempo veniva allontanato e mandato in un altro carcere.

Ora, si permettono il ‘lusso’ di salire sui tetti, come successo a Sollicciano o di fare mancati rientri nelle proprie stanze, di fare presidi in mezzo alle sezioni pur di allontanare i vertici. Questo perché stanno cavalcando l’onda del buonismo di cui sono circondati, certi che non saranno oggetto di trasferimenti né nell’immediatezza e né a medio termine perché il ministero col covid ha rallentato pure i trasferimenti.

E ci si ritrova a lavorare con detenuti che, magari, il giorno prima ci hanno sputato o aggredito e ci meravigliamo se arriva l’ennesimo suicidio tra i poliziotti. La verità è che i detenuti non temono più i rappresentanti dello stato. La polizia penitenziaria e tutto ciò che ruota intorno ad essa andrebbe riformata: in primis i direttori, persone civili, dovrebbero lasciare posto ai comandanti, a coloro i quali indossano una divisa, ma soprattutto colui il quale si rende responsabile di un reato deve avere l’assoluta certezza di scontare una pena, senza concessioni o attenuanti. Il rispetto, in primis, dev’ essere dato alle vittime, cosa che in Italia non accade.

L’unica certezza é che oggi chi fa rispettare le regole o, almeno ci prova, rischia, nelle migliori delle ipotesi, di essere oggetto di una petizione formale. E quello che sta succedendo a Benevento potrebbe essere emulato in altri istituti, con risultati nefasti per tutti coloro che ci lavorano. E aumenta la paura di far rispettare le regole”.

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