“La storia dei curdi è una storia di un popolo senza terra, da sempre in guerra per affermare i propri diritti, oggi si ritrova abbandonato dagli USA, ex alleati e impotente di fronte alla Turchia”.
Chi sono i curdi?
I curdi sono un gruppo etnico indoeuropeo presente in Iran, Iraq, Siria, Turchia e, in misura minore, Armenia. L’area è a volte indicata col termine Kurdistan.
Rappresentano il quarto gruppo etnico più grande del Medio Oriente. La loro popolazione è stimata in circa 35 milioni di persone, ma non hanno mai ottenuto uno Stato nazionale permanente. Alcune comunità curde vivono anche in Europa, soprattutto in Germania. Il sogno del Kurdistan non si è mai materializzato e la questione curda è tornata alla ribalta con l’offensiva dei turchi contro le milizie nel Nord-Est della Siria.
Le repressioni negli anni
In Turchia, dove la repressione dei curdi è particolarmente violenta, con molti giornalisti e politici di origine curda in prigione, è attivo il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, che combatte per formare uno Stato curdo nel sud del paese. Si tratta di un gruppo terrorista di ispirazione marxista leninista che è stato fondato in Siria nel 1974. Negli ultimi anni il Pkk si è reso responsabile del rapimento di numerosi occidentali, tecnici e turisti, che sono comunque stati tutti liberati indenni. Gli altri due partiti curdi, il Partito democratico curdo (il Pdk, fondato nel 1945 da Mustafa Barzani) e l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk, di Jalal Talabani) sono in Iraq e chiedono invece una larga autonomia, che hanno in parte ottenuto grazie alla zona di esclusione aerea creata dall’Onu nel 1991. Dal dicembre 1994 però Pdk e Puk, un tempo alleati, hanno cominciato a contendersi militarmente il dominio della regione e il governo regionale curdo, istituito grazie alla protezione occidentale, è di fatto impotente dinanzi alla guerra fratricida.
L’emigrazione curda dalla Turchia è iniziata circa 20 anni fa e ha interessato quasi esclusivamente Germania e Austria. Secondo alcune stime, i curdi che attualmente vivono in Kurdistan sono circa 38 milioni (20 milioni in Turchia, sei milioni in Iraq, dieci milioni in Iran e due milioni in Siria). Sono circa un milione e mezzo i curdi che vivono nella diaspora, un numero che negli ultimi anni è salito enormemente: le organizzazioni internazionali calcolano che i profughi, in questo momento, siano almeno cinque milioni.
In Europa, il gruppo più consistente (circa 500 mila) si trova in Germania, ma altre numerose comunità si trovano in Austria (45 mila), Scandinavia, Francia e Grecia. In Italia si trovano circa tra i tre e i quattrocento curdi, sparsi nel centro e nel nord Italia, per lo più con regolare permesso di lavoro.
Massiccia, ma di data più recente, anche l’emigrazione da queste regioni curde verso le metropoli turche (Ankara, Istanbul, Adana, Izmir) che ospitano attualmente perlomeno quattro milioni di curdi.
In Iran i curdi sono circa il 10%; il Kurdistan è una provincia, non c’è mai stato un movimento indipendentista molto forte e l’Iran accolse molti curdi durante la guerra con l’Iraq.
In Iraq invece ci sono stati scontri armati per decenni e negli anni Ottanta i regime di Saddam Hussein mise in atto un vero genocidio dei curdi. Oggi, in Iraq, la popolazione curda rappresenta tra il 15 e il 20% del totale, il Kurdistan è una provincia autonoma e il curdo è riconosciuto come lingua ufficiale. Un referendum per la completa indipendenza si è svolto nel settembre del 2017 e avrebbe ottenuto il consenso del 90% di 3 milioni e 300 mila votanti, ma non è stato riconosciuto da governo iracheno.
In Siria, i curdi sono meno del 10% della popolazione. Il regime non ha mai concesso nessuna autonomia, senza mettere in atto aperte persecuzioni ha sistematicamente espropriato le terre ai curdi e tentato di colonizzare le zone curde. Oggi in Siria, come anche in Iraq e Turchia, i curdi sono stati determinanti nelle battaglie contro il sedicente Stato islamico, da Kobane a Raqqa. Dal 2014 i partiti curdi hanno dichiarato un’ amministrazione autonoma in tre province.
In Armenia i curdi dopo la fine dell’Unione sovietica sono stati costretti in buona parte ad andarsene, attraverso l’esproprio e la discriminazione economica.
Perchè la Turchia bombarda i curdi?
La Turchia ha aperto un nuovo capitolo nella guerra cominciata otto anni fa, nel 2011. Mercoledì 9 ottobre 2019 il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato l’inizio dell’operazione militare denominata “Fonte di pace” contro i combattenti curdi nel nordest della Siria: un’offensiva lanciata dalle forze armate turche insieme all’esercito nazionale siriano e, agevolata, dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di ritirare i soldati americani presenti nella zona.
Nelle scorse ore, il presidente turco Erdogan ha dichiarato che lo scopo dell’operazione è quello di allontanare dal confine con la Turchia le milizie dell’Ypg, le unità combattenti di protezione popolare curde, considerate dal governo turco un gruppo terroristico alla stregua del Pkk, i paramilitari del Partito dei lavoratori curdo che da decenni si battono per vedere riconosciuta l’autonomia curda in territorio turco. L’offensiva militare della Turchia punta inizialmente ad allontanare i curdi dalla frontiera, ma resta da capire fin dove potrà spingersi l’avanzata sul terreno. Erdogan vorrebbe trasferire due milioni di rifugiati siriani che attualmente si trovano in Turchia, ma per farlo – ha spiegato – occorrerà arrivare fino a Raqqa e Deir ez-Zor, ben oltre i trenta chilometri, previsti dagli accordi con gli Stati Uniti.
A settembre Erdogan ha minacciato l’Unione europea (con cui ha siglato un accordo nel 2016 per il controllo dei migranti) di essere pronto ad “aprire le porte” ai rifugiati se non verrà creata una zona di sicurezza nel nord della Siria. E lo ha rifatto anche nei giorni scorsi.
In Occidente, negli ultimi anni, si è spesso parlato dei curdi siriani anche per la loro battaglia contro l’Isis. L’Ypg (unità combattenti di protezione popolare curde) ha anche ricevuto il supporto degli Stati Uniti, che individuarono come propri alleati sul terreno nella guerra contro l’Isis proprio i curdi siriani. I guerriglieri curdi, con il sostegno Usa, nel 2015, riuscirono a riconquistare i propri territori occupati dall’Isis – noti anche come Rojava, o Kurdistan siriano – e riuscirono anche ad espandersi in aree abitate da popolazioni arabe. Negli anni successivi, 2016 e 2017, i curdi-siriani rafforzarono il proprio controllo sul Rojava e contribuirono in modo determinante alla sconfitta finale dell’Isis.
Fino alla decisione di ritirarsi dal nord della Siria, gli Stati Uniti hanno sostenuto e finanziato le Forze democratiche siriane (le Sdf), composte in gran parte dalle Ypg, le milizie curde che hanno combattuto sul territorio lo Stato Islamico, liberando tra le altre città anche Raqqa. Ad agosto, a seguito di un accordo Usa-Turchia, il governo americano aveva inoltre convinto i curdi a ritirarsi da alcuni avamposti di frontiera con la Turchia, promettendo loro protezione e sicurezza. A sorpresa, però, a inizio ottobre Donald Trump ha deciso di ritirare i soldati americani presenti nel nordest della Siria in modo da non interferire nelle operazioni militari turche. Per i curdi questo gesto è stato interpretato come tradimento.
Quali sono i rischi maggiori di questa operazione militare?
Uno dei rischi maggiori dell’operazione militare turca contro i curdi nel nordest della Siria è far “risvegliare” lo Stato islamico (o Isis), o creare le condizioni per una sua riorganizzazione più veloce. Anche perché, contrariamente a quanto sostenuto da Donald Trump, l’Isis non è mai stato sconfitto definitivamente in Siria. Il presidente russo Vladimir Putin, durante un vertice degli ex paesi sovietici ad Ashgabat, in Turkmenistan, ha avvertito che l’offensiva turca rischia di ridare slancio ai miliziani dell’Isis che “potrebbero fuggire” dai campi controllati dai curdo-siriani: “Arriva l’esercito turco, i curdi abbandonano questi campi, i combattenti dell’Isis possono semplicemente fuggire in tutte le direzioni. Non so quanto velocemente la Turchia può arrivare a controllare questa situazione, una minaccia reale per tutti noi. Dove andranno? Passeranno dal territorio turco o da altre zone?”. Sono migliaia i militanti dell’Isis concentrati nel nord della Siria, secondo le valutazioni dell’intelligence militare russa.
“L’Europa deve prendersi i prigionieri dell’Isis”, ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. “L’Europa avrebbe già dovuto riprenderli dopo numerose richieste. Dovrebbero farlo ora. Non arriveranno e non saranno mai ammessi negli Stati Uniti” – ha avvertito senza mezzi termini Trump. Intanto oltre 800 familiari di combattenti Isis sono fuggiti dai campi profughi, facendo perdere le loro tracce. Tutto questo mentre la catastrofe umanitaria diventa sempre più una realtà davanti agli occhi dell’Occidente”.
Rischio di un aumento del flusso dei migranti
L’attacco della Turchia in Siria potrebbe causare anche un nuovo aumento del flusso di migranti. Nelle scorse settimane, si è già registrata una crescita degli sbarchi nelle isole greche e c’è il rischio che ne aumentino ancora. Le nuove tensioni in Medio Oriente potrebbero spingere molti rifugiati siriani che oggi si trovano in Turchia a scappare verso l’Europa, più o meno come successe pochi anni fa lungo la cosiddetta rotta balcanica. Erdogan ha lanciato il suo ricatto all’Ue: “L’Europa deve restare ad osservare inerme mentre la Turchia attacca le truppe curde in Siria, altrimenti salteranno i patti sulla gestione dei rifugiati e 3,6 milioni di migranti verranno mandati in Europa. Se l’Europa bolla l’operazione militare lanciata ieri come un’occupazione, apriremo i cancelli e vi manderemo 3,6 milioni di rifugiati” – ha annunciato Erdogan.
Come stanno reagendo la comunità internazionale e il governo italiano?
Attaccati dalla Turchia e abbandonati dagli Stati Uniti, oggi i curdi siriani si sentono traditi proprio da quel mondo occidentale che aveva espresso sostegno e stima nei loro confronti negli ultimi anni. Come sta reagendo la comunità internazionale in queste ore? Tante le dichiarazioni di condanna e sdegno finora, pochi gli interventi concreti. “La nostra posizione sull’intervento militare che la Turchia sta intraprendendo nel nord-est della Siria è chiara. Chiediamo alla Turchia di fermarlo. Riteniamo che le conseguenze sarebbero estremamente pericolose”, ha dichiarato Federica Mogherini. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue ha però affermato che fermare i finanziamenti alla Turchia per la gestione dei migranti sarebbe controproducente. “Questi soldi vanno alle agenzie che danno sostegno ai rifugiati siriani nella regione, dobbiamo fare attenzione a non far diventare quei rifugiati vittime due volte”– ha spiegato Mogherini.
Mentre nelle zone del conflitto migliaia di persone sono in fuga, la viceministra francese per gli Affari europei Amelie de Montchalin ha parlato della “possibilità di imporre sanzioni alla Turchia, l’UE ne discuterà al Consiglio europeo della settimana prossima”. La Francia ha sottolineato che “non si può rimanere impotenti di fronte a una situazione scioccante per i civili, per le forze siriane per 5 anni al fianco della coalizione anti-Isis, ma soprattutto per la stabilità della regione”.
Contraddittoria la posizione degli Stati Uniti. Se, come detto, la decisione di Trump di ritirare i soldati statunitensi dal nordest della Siria ha dato il là all’invasione turca contro i curdi siriani, venerdì 11 ottobre gli Stati Uniti, attraverso una nota del Pentagono: “Hanno incoraggiato fortemente la Turchia a porre fine alle azioni militari contro i curdi nel nordest della Siria”. Con esse, Ankara “rischia gravi conseguenze”, ha avvertito il ministro della Difesa americano, Mark Esper, riaffermando il “valore delle relazioni bilaterali strategiche” tra Washington e Ankara.
“Seguo con profonda preoccupazione gli ultimi sviluppi nel nordest della Siria, facciamo appello alla Turchia perché cessi immediatamente la sua iniziativa militare unilaterale che possa mettere in pericolo la stabilità regionale e indebolire la lotta contro Daesh”- ha affermato Conte.
“Condanniamo con forza ogni tipo di intervento militare perché rischia di pregiudicare gli sforzi della coalizione anti Isis”, ha detto Luigi Di Maio in un’intervista a «La Repubblica».
Lunedì 14 ottobre il Consiglio Europeo ha delegato, ai singoli Stati membri, la possibilità di imporre restrizioni all’esportazione di armi in Turchia in conseguenza alle operazioni militari condotte da Ankara nel nordest della Siria. Una decisione presa per evitare di scomodare i Paesi membri della Nato che, in primis il Regno Unito, si erano opposti ad un embargo formale europeo alla vendita di armi ad un loro alleato. “Inoltre procedendo per via nazionale le misure sono più rapide“, ha spiegato l’Alto Rappresentante dell’Ue per gli Affari Esteri Federica Mogherini. Peccato che anche se tutti i Paesi europei smettessero di armare la Turchia, l’esercito di Ankara non avrebbe di che risentire. L’ipocrisia della decisione presa dai Paesi europei diventa lampante nelle parole di Emced Osman, portavoce del Consiglio democratico siriano: ”Ankara ha già abbastanza armi per uccidere il nostro popolo”.
Pur esprimendo l’apprezzamento per tutti quei Paesi europei che hanno mostrato rispetto per i “sacrifici fatti dai combattenti delle Fds” nella lotta all’Isis, Emced Osman chiede all’Unione europea di esercitare una maggiore pressione per fermare l’aggressione turca e il disastro umanitario: “Riteniamo che la situazione necessiti di una pressione diretta sulla Turchia per fermare questi crimini. Gli Stati Uniti ci hanno aiutato nella guerra contro l’Isis, ma poi hanno buttato via tutto quello che è stato fatto ritirandosi dal Rojava. Le forze curde stanno facendo tutto il necessario per proteggere la sicurezza della regione e impedire il ritorno dell’Isis”.
Cosa si prospetta per il futuro dei curdi?
Continuano gli attacchi che non si fermano nemmeno davanti a giornalisti e report, infatti nei giorni scorsi, l’esercito di Ankara ha conquistato le città di Tel Abyd e di Ras al-Ain dove in uno dei suoi raid ha colpito un convoglio di giornalisti stranieri. E’ stato colpito un convoglio sul quale viaggiavano giornalisti stranieri. Due cronisti sono stati uccisi e altri sei sono rimasti feriti. L’Osservatorio parla di 26 civili morti.
L’accordo per il «cessate il fuoco» in Siria raggiunto fra il presidente turco Erdogan e il vice-presidente Usa Mike Pence prevede uno stop dell’offensiva militare della durata di cinque giorni. Durante queste precarie 120 ore, nel corso delle quali la Turchia ha continuato a lanciare razzi, gli Stati Uniti dovrebbe favorire l’evacuazione dei combattenti curdi dalla zona di sicurezza concordata con Ankara. In tal modo la Turchia otterrà l’agognata zona di sicurezza oltre il suo confine, in territorio siriano. Pence ha specificato che gli Stati Uniti toglieranno le sanzioni alla Turchia, una volta che il cessate il fuoco diventerà permanente. Di fatto, si tratta di una vittoria per Erdogan.
Un portavoce delle Forze democratiche siriane ha definito quella degli Stati Uniti «una pugnalata alle spalle». Ad ogni modo i curdi, che hanno accusato le forze turche di aver utilizzato «fosforo bianco e napalm», hanno resistito all’attacco, in particolar modo nelle città di frontiera. «Gli Stati Uniti hanno di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero andare oltre l’obiettivo di assicurarsi il controllo del confine.