Tra Fede e Cultura c’è di mezzo la Legge di Nicola Prebenna

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Quel che è accaduto a Fatima, nome fittizio, giovane studentessa originaria del Bangladesh che vive a Bologna, merita qualche approfondimento. Il caso è noto: la studentessa è stata sottoposta al taglio dei capelli ad opera della madre per essersi rifiutata di indossare il velo, come da tradizione di famiglia musulmana. Resisi conto del disagio della giovane, i responsabili della scuola frequentata dall’adolescente, interessano le forze dell’ordine che provvedono a trasferire la studentessa in struttura protetta. Esulando dalle considerazioni che rinviano a valutazioni politiche spesso interessate e capziose, ci piace riflettere sul quadro d’insieme che l’episodio delinea. In primo luogo, balza evidente lo scarto generazionale, reso più problematico dalla condizione di immigrati dei genitori. Questi, arrivati in Italia, hanno portato con sé non solo le loro tradizioni religiose, ma anche quelle civili o proprie delle comunità di provenienza; ed hanno cercato, nella maggior parte dei casi, di convivere in vario modo con la cultura del paese di accoglienza. I loro figli, spesso nati in Italia e sostanzialmente cittadini italiani – per quanto non ancora pienamente riconosciuti -, ed in particolare le donne, pur legate alla fede tradizionale, che spesso è l’islam, intendono vivere alla maniera delle loro coetanee italiane, e mal sopportano imposizioni che attengono più alla tradizione culturale che religiosa in senso stretto dei paesi d’origine. La politica del rispetto, del reciproco riconoscimento per quanto attiene alla fede professata, la consapevolezza del primato della legge propria del paese che ospita, sono punti fermi che divengono sempre più conquiste condivise da strati sempre più consistenti di cittadini. Quello che in realtà diverse dalla nostra è un dato reale – la stretta relazione tra struttura sociopolitica e struttura religiosa, in molti paesi arabi o di fede islamica, secondo una impostazione teocratica -, nella nostra cultura laica e democratica è, da diverso tempo, un dato superato. La fede è istanza personale e comunitaria, definisce anche l’identità di una comunità, ma la vita della società è ancorata a valori “altri” rispetto ai precetti di natura religiosa. La diversità può essere occasione di arricchimento, quando scevra da integrismi e da pretese totalizzanti, e può costituire una occasione preziosa di crescita. Significativi passi in avanti sono evidenti. I rappresentanti religiosi delle comunità musulmane, gli imam illuminati che vivono in Italia, stanno sempre più maturando la convinzione che la fede, i precetti che valgono per il potenziamento della spiritualità sono altra cosa rispetto ad abitudini, a tradizioni che hanno più a che fare con la cultura, con il modo di vivere, con le tradizioni – pure originariamente scaturite da premesse religiose – che sono da tenere distinte rispetto ai valori del credo. Sono segnali positivi che testimoniano come la tolleranza, il rispetto, l’inclusione generano a lungo andare comportamenti coerenti con tali principi: la visita di papa Francesco ad una famiglia musulmana, senza nessuna pretesa di proselitismo, è un segnale forte che la religiosità, quando si esprime senza odio e fanatismi, è un potente fattore di pacifica e positiva convivenza. La chiusura, la predicazione dell’esclusione, la pratica del rigetto, questi sì sono strumenti di divisione e di conflitti. Certo, occorre moltiplicare gli sforzi perché la reciprocità diventi la norma delle relazioni fra persone, comunità e paesi; intanto il rispetto praticato, come gli esempi positivi, alla fine non potranno non determinare che risultati positivi. Le difficoltà esistono, ma la forza della ragione, la cogenza della legge di sicuro determineranno condizioni di una vera, effettiva integrazione. Conta che ci si creda e che ci si impegni con determinazione.